diamante hope

Hope, il diamante maledetto, ed altre pietre sporche di sangue

Per sfoggiare in società un bel diamante sporco di sangue non serve rovinarsi la vita ed attirarsi addosso la terribile maledizione del Diamante Hope. Il più delle volte basta una pietruzza comprata in gioielleria…

Dall’India con maledizione

Maledetto dall’ira divina dell’idolo indiano da cui il mercante francese Jean-Baptiste Tavernier la disincastonò nel 1688, il diamante Hope, così rinominato quasi 200 anni dopo dal nuovo e sfortunato proprietario, ha, per quasi 400 anni, lasciato dietro di sè una terribile scia di sangue e sciagura. Passata di mano in mano, l’enorme pietra blu da 112 carati nata nelle profondità indiane di Golconda ha, con precisione quasi sistemica, brutalmente eliminato ogni suo proprietario. In breve tempo, Tavernier perse la sua intera fortuna economica, rimanendo poi ucciso durante un nuovo viaggio in India.

Passato nelle mani del suo nuovo proprietario, il re di Francia Luigi XIV, che lo fece intagliare a forma di cuore riducendolo a 67,5 carati, il diamante fu a lungo sfoggiato dal sovrano, fino alla dolorosa morte avvenuta per il complicarsi di una gangrena alla coscia. Uccise anche il successore Luigi XV, orribilmente sfigurato da una violenta infezione di vaiolo, arrivando così al collo della sfortunata Maria Antonietta, il cui destino si sarebbe tristemente concluso di lì a pochi anni sul patibolo di Place de la Concorde.

La pietra, che tra storici ed esperti già cominciava a circondarsi di una quanto mai sinistra ed oscura nomea, continuò per anni a “rimbalzare” da uno scrigno ad un altro, sempre avverando la terribile maledizione del dio indiano. Un gioielliere che l’acquistò morì di infarto non appena la pietra gli fu rubata; il figlio, presunto autore del furto, si suicidò ed un amico di entrambi, che aveva trovato il diamante tra i beni lasciati incustoditi, morì pochissimo tempo dopo.

I banchieri Hope e la pietra maledetta

La pietra assunse il nome con cui oggi è famosa nel 1839, apparendo per la prima volta sul catalogo di una collezione di gemme di proprietà della facoltosa famiglia di banchieri Hope. Dopo averla pagata una vera fortuna, Lord Francis Hope, VIII duca di Newcastle, s’affrettò a rivenderla essendosi ormai separato dalla giovane moglie e quasi caduto in disgrazia.

Fu quindi la volta di Jacques Colot, entratone in possesso subito impazzito, che si suicidò pochi giorni dopo averla venduta al principe Kanitowskij, che a sua volta morì atrocemente linciato dai rivoluzionari. Non si salvò la fidanzata che lo ricevette in regalo, uccisa dallo stesso principe in un raptus di gelosia. Poi il gioielliere greco Simon Matharides, morto cadendo in un burrone mentre era in viaggio per ricevere il diamante che aveva appena acquistato ed il sultano turco Abdul Hamid II, deposto dal trono poche settimane dopo l’acquisto e morto, di lì a poco, tra i deliri della pazzia.

Il diamante Hope nel Novecento

Il nuovo secolo vide come primo proprietario dell’Hope il gioielliere francese Pierre Cartier che, nel 1910, lo acquistò per venderlo al proprietario del Washington Post. Edward Beale McLean voleva infatti fare un regalo alla moglie. Nel giro di pochi mesi, morirono prima la madre di McLean, poi due cameriere ed infine il figlio primogenito di appena 10 anni, investito da un’auto mentre giocava nel giardino. I coniugi McLean divorziarono: lui divenne alcolista e la moglie Evelyn, che decise di sfidare la sfortuna e di tenere il diamante per sé, assistette al suicidio della figlia alla quale l’aveva prestato per il giorno del suo matrimonio. Infine, ultimo proprietario, il gioielliere statunitense Harry Winston che, assai saggiamente, decise nel 1958 di donare il diamante Hope allo Smithsonian Institute di Washington. Lì ancora oggi è esposta al pubblico in una teca infrangibile. Nessun Lupin ha, fino ad ora, tentato di impossessarsene…

Ad ogni buon conto, per mettersi al dito o appendersi al collo un luccicante diamante sporco di sangue, le capricciose signore con la fregola d’apparire non hanno bisogno di rivolgersi ad un qualche miliardario delle finanze pressoché infinite (o, per quanto detto prima, nemmeno ad un abile scassinatore).
Nove su dieci va benissimo anche una “pietruzza” da poche centinaia di euro acquistata in una qualsiasi gioielleria del centro. Da 112 o da 6 carati, non fa alcuna differenza: i diamanti sono e continuano ad essere “sporchi di sangue”.

I maggiori estrattori del mondo sono la Repubblica Democratica del Congo, il Sud Africa, la Sierra Leone, la Liberia e l’Angola. Questi Stati son veri e propri teatri di guerra dove i diamanti vengono estratti in miniera da lavoratori-schiavi e, spesso, bambini. Complici governi corrotti e multinazionali senza scrupoli, una su tutti l’arcinota The Beers, il giro d’affari è miliardario ed i proventi ricavati destinati non solo alle tasche di ricchi finanzieri, ma anche e sopratutto a finanziare guerre e conflitti. 

I traffici illeciti e le prime certificazioni

A inizio secolo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite formulò per la prima volta la definizione dei diamanti insanguinati:rough diamonds which are used by rebel movements to finance their military activities, including attempts to undermine or overthrow legitimate Governments” (AG A/RES/55/56). 

Attraverso la Risoluzione 1306/2000, nel 2000 il Consiglio proibì agli Stati membri l’acquisto diretto e indiretto di diamanti grezzi estratti in Sierra Leone e, nel 2001, in Liberia. Invitò anche a certificare le pietre estratte legittimamente, affinché potessero chiaramente distinguersi dai cosiddetti “diamanti insanguinati”. Risoluzione che di fatto non ebbe quasi nessun effetto. Come largamente testimoniato, le pietre continuarono – e continuano tutt’oggi – a fungere come indispensabile moneta di scambio per l’acquisto di armi ed eserciti. 

Il Kimberley Process Certification Scheme

Nel 2002,  si passò all’adozione del “Kimberley process certification scheme”, sistema di certificazione internazionale dell’origine dei diamanti. Anche in questo caso, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite ha giudicato l’ambito del processo – definito come un “mero sistema di autoregolazione” – troppo ristretto e semplice da aggirare.

Sapere da dove proviene un diamante, in ogni caso, potrebbe non essere comunque sufficiente, ha evidenziato Alice Harle della ONG Global Witness: “non è la stessa cosa che capire i rischi a cui potrebbe essere stato associato durante l’estrazione o durante il periodo di trasporto. È difficile per i consumatori sapere come i diamanti acquistati in una gioielleria di Londra o New York vi siano effettivamente arrivati”.

A ben guardare, la migliore soluzione per mettere fine all’orribile traffico pare molto più semplice di quanto s’immagini…
Qui un articolo da cui partire: “La maledizione delle risorse: dai blood diamonds degli anni ‘90 al dirty gold di oggi”.


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