Le teorie sull’origine di Oumuamua, primo oggetto interstellare di passaggio nel nostro Sistema Solare, sollevano vecchie questioni. La scienza odierna è davvero apertura al possibile o si chiude all’improbabile?
Arroccato a tremila metri sull’oceano Pacifico, il 19 ottobre del 2017, il telescopio dell’Osservatorio di Haleakala, nelle isole Hawaii, fotografava ciò che si sarebbe poi rivelato essere il primo oggetto interstellare di passaggio nel nostro Sistema Solare. Battezzandolo Oumuamua, che in hawaiano significa messaggero o esploratore, gli astrofisici l’hanno descritto rosso e piatto, lungo tra i 100 e i 1000 metri, ma largo soltanto tra i 35 e i 167. Una forma a sigaro, decisamente insolita per un corpo celeste.
Oumuamua: l’esploratore misterioso
Origine, natura ed età dell’oggetto sono tuttora sconosciuti e tali rimarranno considerando che Oumuamua, solo in transito, è ormai scomparso nelle profondità interstellari.
La prima teoria, avanzata dall’astronomo Zdenek Sekanina, del Jet Propulsion Laboratory NASA, vedeva nel misterioso oggetto volante nient’altro che un’esocometa disintegratasi, cioè una cometa con orbita attorno a una stella diversa dal Sole esplosa e “rotolante” nello spazio intergalattico. Una sorta di nube di polvere e detriti che, in quel momento, si trovava nelle “vicinanze” di Plutone. Ipotesi rifiutata da un successivo studio pubblicato dalla NASA sull’Astronomical Journal il quale, pur dettagliando i motivi che portavano ad escludere l’idea di Sekanina, giungeva di fatto a risultati inconcludenti, ammettendo, infine, il “mistero sull’origine e l’evoluzione di Oumuamua”. Più di recente, nel 2021, i ricercatori Alan P. Jackson e Steven J. Desch hanno presentato una nuova ipotesi secondo la quale l’oggetto sarebbe potuto essere un pezzo di un esopianeta simile a Plutone, dunque composto da blocchi di azoto ghiacciato.
La tesi più affascinate – o perlomeno quella che ha permesso alla “vicenda Oumuamua” di uscire dai laboratori spaziali per approdare su giornali e TV – la si deve però a Avi Loeb, presidente del Dipartimento di Astronomia di Harvard, membro del Board on Physics and Astronomy of the National Academies nonché ex-consigliere del President’s Council of Advisors on Science and Technology (Pcast) alla Casa Bianca.
Secondo Loeb, Oumuamua non è né un’asteroide né un esopianeta, bensì parte di una tecnologia aliena, forse di “un oggetto artificiale progettato per raccogliere informazioni”. Detriti tecnologici, apparecchiature non più operative, magari resti di una navicella interstellare.
La tesi ha ovviamente fatto storcere il naso a molti colleghi che, pur riconoscendo i meriti e le competenze di Loeb, si sono mostrati assai restii nell’abbracciarla, o quantomeno nel prenderla in considerazione. Un atteggiamento sempre più diffuso nella comunità scientifica, ormai lontana dai fondamenti propri della ricerca stessa, come sottolineato dallo stesso Professore. “Rifiutare un’idea solo perché stravagante o fuori moda, anche se teoricamente possibile“ è del tutto antiscientifico: al contrario, insiste Loeb definendosi “il più conservatore tra i conservatori”, sarebbe auspicabile, per non “precludere all’umanità l’opportunità di nuove scoperte”, valutare ogni teoria basata sull’osservazione dei fatti.
Un’apertura verso il possibile e non una chiusura verso l’improbabile
Loeb ha approfondito il discorso in occasione di una recente intervista rilasciata alla redazione di Scientific American. “Troppi scienziati, oggi, sembrano essere motivati solo dal proprio ego, dall’ottenere riconoscimenti e premi, dal mostrare ai loro colleghi quanto siano intelligenti. Fanno della scienza un monologo su se stessi piuttosto che un dialogo con la natura. Costruiscono camere di risonanza avvalendosi di studenti e dottorandi che ripetono quelle idee come un mantra soltanto per promuovere la propria immagine”.
Ma c’è dell’altro: non si tratta solo di promulgare a gran voce (magari scrivendo un libro per il grande pubblico) le proprie teorie, ma anche e soprattutto del genere di teorie che vengono promulgate. Teorie che, secondo Loeb, sarebbero il più delle volte indimostrabili: “gli scienziati non sono più guidati dall’evidenza scientifica. Le prove ti permettono di rimanere umile: metti alla prova un’ipotesi e può essere che venga fuori che ti sei sbagliato. Oggi invece, quello che fanno molti scienziati famosi è niente più che ginnastica matematica su tesi non verificabili, come quelle delle stringhe, del multiverso e dell’inflazione cosmica. Una bolla di teorie immaginarie non verificabili inserite in una grande comunità dove tutti, accettando lo stesso modo di procedere, possono sostenersi e premiarsi a vicenda”.
La scienza, per il Professore, dovrebbe invece rischiare molto di più: non possiamo evitare certe idee solo perché ci preoccupiamo delle conseguenze derivanti dalla loro discussione, il pericolo sarebbe in questo caso ancora più alto. Come se Galileo si fosse rifiutato di approfondire la sua teoria sulla Terra che gira intorno al sole perché dannosa per la filosofia dell’epoca. Abbiamo bisogno di un dialogo aperto in cui esperti presentino idee diverse e poi permettano alle prove di stabilire quale sia quella giusta. Per quanto concerne il caso Oumuamua, spiega Loeb, “le prove disponibili suggeriscono che questo particolare oggetto sia artificiale, e il modo per verificarlo è trovare più [esempi] di questo genere ed esaminarli. È così semplice”.
Cambiare l’atteggiamento diffusosi nella comunità scientifica contemporanea non pare troppo complesso: per Loeb basterebbe parlarne al grande pubblico il più possibile così da poter aprire un dibattito vivo e approfondito, permettendo a persone con competenze diverse di analizzare quelle stesse teorie seguendo il metodo proprio alla Scienza.
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