Com’era il pianeta Terra 200 milioni di anni fa? Quali creature lo abitavano e quali, per fenomeni ancora non del tutto chiari, lo stavano definitivamente per abbandonare? Un testimone d’eccezione si aggiunge alle tessere del puzzle…
A seguito della più devastante estinzione di massa fino ad oggi conosciuta, collocata dagli studiosi a circa 250 milioni di anni fa e ritenuta responsabile della scomparsa del 95% della vita sulla Terra, a cavallo del triassico medio e del triassico superiore, il Pianeta tornava lentamente, dopo la colossale eruzione vulcanica avvenuta nella zona del Tappo Siberiano e durata all’incirca 1 milione di anni, a popolarsi prendendo nuove forme e diventano habitat di nuove creature.
I dinosauri si separavano dai propri antenati rettili – gli stessi che 200 milioni di anni prima si erano a loro volta separati dalle prime creature che abitavano gli oceani -, per farsi i vertebrati dominanti sulle terre emerse, mentre la grande Pangea, ormai “scricchiolante”, si spezzava in due enormi continenti, la Laurasia, che a sua volta si sarebbe poi scissa in Nord America e Eurasia, e il Gondwana, che fratturandosi in più parti, avrebbe dato luogo al Sud America, all’Africa, all’Antartico e al subcontinente indiano. Mentre sulla terra ferma i giganteschi dinosauri si preparavano loro malgrado all’evoluzione degli uccelli, gli abissali oceani preistorici assistevano alla lenta nascita dei cefalopodi, destinati in poco tempo a colonizzare le acque salate dell’intero Pianeta.
Una concreta testimonianza della loro evoluzione arriva oggi dalla frastagliata costa dell’Inghilterra meridionale, dove i ricercatori dell’Università di Plymouth hanno rivenuto il fossile di un gigantesco Clarkeiteuthis montefiorei, rimasto curiosamente vittima della sua stessa tattica di caccia. Datato tra 190 e 199 milioni di anni fa, cioè almeno 10 milioni di anni più vecchio di qualsiasi altro campione simile registrato in precedenza, il fossile mostra l’enorme cefalopode nell’atto di inghiottire un altrettanto mostruoso Dorsetichthys bechei, il cui aspetto (ma non certo le dimensioni), potrebbero in qualche modo ricordare la “nostra” aringa.
Analizzando il reperto, gli studiosi hanno suggerito due potenziali ipotesi sull’accaduto. In primo luogo, suggeriscono che il pesce fosse troppo grande per il suo ingordo aggressore e che, rimasto “incastrato” tra le sue fauci, l’avrebbe, da morto, soffocato. In alternativa, il Clarkeiteuthis potrebbe aver trascinato la sua preda nelle profondità marine per gustarsela in santa pace senza essere disturbato da altri predatori. Tuttavia, ecco l’ipotesi, immergendosi negli abissi fino a raggiungere acque ipossiche, sarebbe morto soffocato.
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